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1 Aprile 2013

     


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IN MEMORIA di Un UOMO che FACEVA SORRIDERE L’ANIMA – “Enzo, vengo anch’io?…. “Sì. Tu sì…”
Un’avventura nel mare di Porticello in Sicilia: due windsurf, una ferita, dieci punti di sutura…



il ricordo di Lorenzo Matassa.

Io l’ho conosciuto.
Una lunga cicatrice, sul dorso del piede destro, mi racconta ancora di lui.
Era estate. Una giornata di quelle afose in cui uno strano ed irregolare vento spazzava il mare di fronte alle formiche di Porticello.
C’era “l’Ostro”.
Il nome del vento è sconosciuto a tanti che vanno per mare.
Lo chiamano “Mezzogiorno”, perché proviene dal quadrante Sud della Rosa.
Ricorda un po’ l’orco cattivo delle favole.
Le secche, al largo del golfo, increspavano di spuma bianca.
I pescatori lo sapevano: “Nunnu s’avventura, si c’è l’Ostro ‘nta l’aria…“.
Già… nessuno si avventura… ma Enzo Jannacci quel “Nessuno” lo interpretava nell’esatto suo contrario. Fu, quel giorno, l’epico protagonista dell’Odissea.
Si dichiarò Ulisse ed uscì per mare sopra una tavola a vela.
Quando traguardai la linea indistinta dell’orizzonte, era ormai troppo tardi.
“L’Ostro” lo aveva avvolto, come in una nuvola.
Zeus e Poseidone volevano portarselo via. Anche gli Dei amano chi li fa sorridere…
Come nella pubblicità dell’amaro Montenegro, dovevo andare a salvarlo.
Ma quelli della pubblicità hanno idrovolanti e motoscafi.
Io avevo una piccola tavola da surf che mai avrebbe retto alla forza di quel mare.
Ma si sa… I giovani sono più incoscienti dei cantanti e dei medici. E così andai…
Lo raggiunsi in un punto tanto lontano che quasi più non si vedeva la costa.
Era stremato, ma resisteva con onore.
Sorrideva di quel mare e di quel vento che lo avrebbero travolto.
Da lontano gli gridai di lasciare la vela in acqua e permettermi di avvicinarmi.
Ironizzai con le sue stesse (e famosissime) parole: “Enzo, vengo anch’io?”.
Si fermò per un attimo a pensare, traguardò l’orizzonte spazzato dal vento e disse:
“Sì. Tu sì…”.
Ma la vita è forse quello che si racconta nelle canzoni?
L’abbordaggio era impossibile.
Quelle vele, come guidate dalla forza di un Dio impazzito, vibravano colpi di clava.
Stare in piedi sulle tavole era impossibile ed in acqua dovevamo sommergere la testa per evitare che gli alberi o i pesanti boma (allora era in duro teak lamellare) ci colpissero lasciandoci lì, stecchiti, per sempre.
In quella surreale e drammatica emergenza Enzo Jannacci si presentò.
“Non sai quanto piacere io abbia di conoscerti…”.
Esplosi in un sorriso che sapeva di sarcastica allegria del naufrago:
“Il piacere è tutto mio… ma questo non ci salverà, entrambi, dall’annegamento…”.
Notai che aveva rotto il giunto che collegava l’albero alla tavola.
Quella tavola a vela era, ormai, solo una disperata zattera alla deriva.
Pensare di tornare in due sulla mia era una probabilità pari solo all’impossibilità.
Il mare ci avrebbe dispersi e pure una bella morte sarebbe stata.
Morivo insieme a chi, nelle lunghe sere d’inverno, aveva rallegrato i miei pensieri con le sue strampalate strofe che ricordavano vecchie scarpe da tennis.
Era il destino, con la sua immensa, grande ed imperscrutabile bellezza.
Ma accadde qualcosa che intenerì gli Dei del cielo e del mare.
Vidi Enzo Jannacci togliersi il costume e strappare a morsi la cucitura dell’elastico.
Quell’improvvisato legaccio gli servì a ricomporre il piede dell’albero.
Nudo risalì sul surf e – come felino mai domato – ricominciò a lottare tra le onde.
Ridevo. Di quella sublime e impavida metafora della vita che Enzo aveva generato.
Lottava nudo ed inerme contro un destino immensamente più grande di lui…
Poteva essere, quella, una scena di inarrivabile tragicità.
Era, invece, nelle sue mani, un concentrato ironico del nostro essere – fragile e disperso – tra i flutti della vita.
Amo pensare che gli Dei sorrisero di noi e si impietosirono, salvandoci.
Il vento, dopo qualche ora, si placò.
Tornammo a riva. Tra gli sguardi stupiti di tutti i presenti.
Stupore per il nostro impossibile ritorno e per la comica nudità indossata con stile.

Come nelle migliori tradizioni delle storie del mare, però, doveva restare un segno che ci ricordasse che mai, in futuro – avremmo dovuto confondere il gesto di clemenza della natura quale fosse un riconoscimento della nostra forza.
Nel tentativo di agganciare la tavola di Enzo mi ero procurato una ferita.
Lacera, lunga e profonda sul dorso del piede destro.
Avevo perso molto sangue e ciò che restava del costume era servito a tamponare.
Enzo Jannacci lasciò a quel punto i panni del navigatore (nudo) per indossare quelli del medico chirurgo.
Si fece portare la sua borsa e lì, davanti al mare di Porticello, mi ricucì il piede.
So che non mi crederete, ma è quello che avvenne.
La storia, però, deve ancora essere raccontata fino in fondo…
Quando lo vidi armeggiare con ago e filo, gli chiesi se non fosse stato meglio portarmi al pronto soccorso.
Temevo il dolore che quell’operazione mi avrebbe dato. Volevo l’anestesia.
Mi guardò e sorrise. Mi disse che lui stesso era l’anestesia.
Cominciò così a parlarmi di un tal guerriero maori (o vatusso, o berbero) che lui aveva ricucito per un taglio al braccio lungo quanto il braccio medesimo.
L’intervento che Enzo raccontava aveva avuto un’incredibile particolarità.
Il guerriero aveva preteso (ed ottenuto) che la sutura – senza anestesia – dovesse avvenire mentre la sua mano teneva la lancia di guerra ben salda ed in posizione verticale. Era segno, quello, di grande virilità.
Il guerriero era alto ed Enzo era bassino, sì che il chirurgo aveva dovuto mettersi su un predellino e cercare di fare il suo lavoro in quelle condizioni.
Ad ogni punto, il guerriero gridava: “makemakimakonga!”.
I punti erano stati più di cento.
Ridevo. Ridevo all’impazzata. Ridevo senza più limite e confine. Ridevo insieme a quegli Dei che prima ci avevano salvato.
Fu a quel punto che Enzo Jannacci mi disse:
“Ho finito. La ferita è cucita. Dieci punti, ma neanche si vedono…”.
Non avevo avvertito il minimo dolore.
Capii, quel giorno, che l’umorismo è il più grande anestetico dell’anima.
Enzo Jannacci era il profeta di questa Verità…

 

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