Prima Pagina
e' una testata giornalistica
OnLine
nata nel 1996 come supplemento della rivista edita da Albaria
pubblicazione
iscritta il 26/03/1983
al n.10 del Registro della Stampa presso il Tribunale di Palermo
E-mail
albariapress
@albaria.com
|
|
Musica
IN MEMORIA di Un UOMO che FACEVA SORRIDERE L’ANIMA – “Enzo,
vengo anch’io?…. “Sì. Tu sì…”
Un’avventura nel mare di Porticello in Sicilia: due windsurf, una ferita,
dieci punti di sutura…
il ricordo di Lorenzo Matassa.
Io l’ho conosciuto.
Una lunga cicatrice, sul dorso del piede destro, mi racconta ancora di lui.
Era estate. Una giornata di quelle afose in cui uno strano ed irregolare
vento spazzava il mare di fronte alle formiche di Porticello.
C’era “l’Ostro”.
Il nome del vento è sconosciuto a tanti che vanno per mare.
Lo chiamano “Mezzogiorno”, perché proviene dal quadrante Sud della Rosa.
Ricorda un po’ l’orco cattivo delle favole.
Le secche, al largo del golfo, increspavano di spuma bianca.
I pescatori lo sapevano: “Nunnu s’avventura, si c’è l’Ostro ‘nta l’aria…“.
Già… nessuno si avventura… ma Enzo Jannacci quel “Nessuno” lo interpretava
nell’esatto suo contrario. Fu, quel giorno, l’epico protagonista
dell’Odissea.
Si dichiarò Ulisse ed uscì per mare sopra una tavola a vela.
Quando traguardai la linea indistinta dell’orizzonte, era ormai troppo
tardi.
“L’Ostro” lo aveva avvolto, come in una nuvola.
Zeus e Poseidone volevano portarselo via. Anche gli Dei amano chi li fa
sorridere…
Come nella pubblicità dell’amaro Montenegro, dovevo andare a salvarlo.
Ma quelli della pubblicità hanno idrovolanti e motoscafi.
Io avevo una piccola tavola da surf che mai avrebbe retto alla forza di quel
mare.
Ma si sa… I giovani sono più incoscienti dei cantanti e dei medici. E così
andai…
Lo raggiunsi in un punto tanto lontano che quasi più non si vedeva la costa.
Era stremato, ma resisteva con onore.
Sorrideva di quel mare e di quel vento che lo avrebbero travolto.
Da lontano gli gridai di lasciare la vela in acqua e permettermi di
avvicinarmi.
Ironizzai con le sue stesse (e famosissime) parole: “Enzo, vengo anch’io?”.
Si fermò per un attimo a pensare, traguardò l’orizzonte spazzato dal vento e
disse:
“Sì. Tu sì…”.
Ma la vita è forse quello che si racconta nelle canzoni?
L’abbordaggio era impossibile.
Quelle vele, come guidate dalla forza di un Dio impazzito, vibravano colpi
di clava.
Stare in piedi sulle tavole era impossibile ed in acqua dovevamo sommergere
la testa per evitare che gli alberi o i pesanti boma (allora era in duro
teak lamellare) ci colpissero lasciandoci lì, stecchiti, per sempre.
In quella surreale e drammatica emergenza Enzo Jannacci si presentò.
“Non sai quanto piacere io abbia di conoscerti…”.
Esplosi in un sorriso che sapeva di sarcastica allegria del naufrago:
“Il piacere è tutto mio… ma questo non ci salverà, entrambi,
dall’annegamento…”.
Notai che aveva rotto il giunto che collegava l’albero alla tavola.
Quella tavola a vela era, ormai, solo una disperata zattera alla deriva.
Pensare di tornare in due sulla mia era una probabilità pari solo
all’impossibilità.
Il mare ci avrebbe dispersi e pure una bella morte sarebbe stata.
Morivo insieme a chi, nelle lunghe sere d’inverno, aveva rallegrato i miei
pensieri con le sue strampalate strofe che ricordavano vecchie scarpe da
tennis.
Era il destino, con la sua immensa, grande ed imperscrutabile bellezza.
Ma accadde qualcosa che intenerì gli Dei del cielo e del mare.
Vidi Enzo Jannacci togliersi il costume e strappare a morsi la cucitura
dell’elastico.
Quell’improvvisato legaccio gli servì a ricomporre il piede dell’albero.
Nudo risalì sul surf e – come felino mai domato – ricominciò a lottare tra
le onde.
Ridevo. Di quella sublime e impavida metafora della vita che Enzo aveva
generato.
Lottava nudo ed inerme contro un destino immensamente più grande di lui…
Poteva essere, quella, una scena di inarrivabile tragicità.
Era, invece, nelle sue mani, un concentrato ironico del nostro essere –
fragile e disperso – tra i flutti della vita.
Amo pensare che gli Dei sorrisero di noi e si impietosirono, salvandoci.
Il vento, dopo qualche ora, si placò.
Tornammo a riva. Tra gli sguardi stupiti di tutti i presenti.
Stupore per il nostro impossibile ritorno e per la comica nudità indossata
con stile.
Come nelle migliori tradizioni delle storie del mare, però, doveva restare
un segno che ci ricordasse che mai, in futuro – avremmo dovuto confondere il
gesto di clemenza della natura quale fosse un riconoscimento della nostra
forza.
Nel tentativo di agganciare la tavola di Enzo mi ero procurato una ferita.
Lacera, lunga e profonda sul dorso del piede destro.
Avevo perso molto sangue e ciò che restava del costume era servito a
tamponare.
Enzo Jannacci lasciò a quel punto i panni del navigatore (nudo) per
indossare quelli del medico chirurgo.
Si fece portare la sua borsa e lì, davanti al mare di Porticello, mi ricucì
il piede.
So che non mi crederete, ma è quello che avvenne.
La storia, però, deve ancora essere raccontata fino in fondo…
Quando lo vidi armeggiare con ago e filo, gli chiesi se non fosse stato
meglio portarmi al pronto soccorso.
Temevo il dolore che quell’operazione mi avrebbe dato. Volevo l’anestesia.
Mi guardò e sorrise. Mi disse che lui stesso era l’anestesia.
Cominciò così a parlarmi di un tal guerriero maori (o vatusso, o berbero)
che lui aveva ricucito per un taglio al braccio lungo quanto il braccio
medesimo.
L’intervento che Enzo raccontava aveva avuto un’incredibile particolarità.
Il guerriero aveva preteso (ed ottenuto) che la sutura – senza anestesia –
dovesse avvenire mentre la sua mano teneva la lancia di guerra ben salda ed
in posizione verticale. Era segno, quello, di grande virilità.
Il guerriero era alto ed Enzo era bassino, sì che il chirurgo aveva dovuto
mettersi su un predellino e cercare di fare il suo lavoro in quelle
condizioni.
Ad ogni punto, il guerriero gridava: “makemakimakonga!”.
I punti erano stati più di cento.
Ridevo. Ridevo all’impazzata. Ridevo senza più limite e confine. Ridevo
insieme a quegli Dei che prima ci avevano salvato.
Fu a quel punto che Enzo Jannacci mi disse:
“Ho finito. La ferita è cucita. Dieci punti, ma neanche si vedono…”.
Non avevo avvertito il minimo dolore.
Capii, quel giorno, che l’umorismo è il più grande anestetico dell’anima.
Enzo Jannacci era il profeta di questa Verità…
|