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Da La
Repubblica del 13 febbraio 2002
la
città che ignora il mare
In "Marinai
perduti", uno dei suoi libri migliori, lo scrittore marsigliese
Jean Claude Izzo a un certo punto fa dire a uno dei personaggi: «tutte
le città del Mediterraneo si rassomigliano. Algeri e Barcellona,
Marsiglia e Istanbul, Trieste e Alessandria, Atene e Genova, Tunisi e
Palermo». In cosa si somiglierebbero? Nell'essere città di mare
secondo Izzo, inquiete, travagliate, ma aperte, colorate, vitali (tutte
qualità generate da questa identità), che traggono la loro linfa
vitale dal litorale e dallo specchio d'acqua sul quale si affacciano.
Questa frase di Izzo, che ci ha entusiasmato appena letta, ci è
ritornata in mente in questi giorni di dibattito sul destino del prato
del Foro Italico. Tra ipotesi rodomontesche di costruire in quell'area
un auditorium e ipotesi di protezione ambientale tanto valide sul piano
ecologico quanto vuote di proposta progettuale, comincia a venire il
dubbio che Izzo avesse aggiunto una città di troppo. Cos'è il mare per
i palermitani? Una discarica un tempo occupata dalle giostre e un'ex
palude (Mondello) ridotta a panineria a cielo aperto, pochi chilometri
di litorale degradati, congestionati e privi di qualsivoglia struttura
in grado di renderli appena fruibili e funzionali.
Ci si chiede come mai una città nata come scalo commerciale al centro
del Mediterraneo fruisca di spazi marini così asfittici, tanto più che
gettando un'occhiata alla mappa della città la costa corre per quasi
una ventina di chilometri da est a ovest, otto dei quali vanno dalla
foce dell'Oreto ad Acqua dei Corsari. È vero, la Palermo di Lima e
Ciancimino è nata per sfruttare fino all'osso la rendita fondiaria,
divorando la Conca d'Oro e costruendo un agglomerato caotico e privo di
identità.
oltretutto è abitata in massima parte da persone originarie della
provincia interna, prive di alcun rapporto col mare, le quali aspiravano
più alle calde e sicure stanze della regione che al vento gelido e alla
fatica dei moli di un porto. Queste argomentazioni tuttavia hanno una
valenza limitata nel tempo: da alcuni anni Palermo vanta una rinascita
che l'ha riportata alla ribalta delle cronache nazionali e al
reinserimento nelle principali rotte turistiche. Questa rinascita però
ha evitato ancora una volta di sciogliere il nodo vitale della città
col mare, inteso come risorsa da valorizzare non solo dal punto di vista
paesaggistico, ma anche da quello del suo potenziale economico.
Barcellona ha approfittato delle Olimpiadi per modernizzare le sue
strutture portuali, creare zone residenziali e direzionali a ridosso
della costa, valorizzarne il potenziale turistico. Genova ha avviato un
percorso analogo a partire dalle Colombiadi, imitata da Valencia,
Marsiglia e da altre tra le città nominate da Jean Claude Izzo. E
Palermo? Da oltre mezzo secolo ignora di possedere quegli otto
chilometri di costa, che diventano così preda di villini abusivi e
discariche. Il nuovo piano regolatore se ne accorge, ma solo per
costruirvi giardinetti e porticcioli che tutto rappresentano salvo che
un investimento a lungo termine su quell'area, ignorando altresì
l'esistenza del porto e dei Cantieri navali.
Nelle elezioni del 1997 la coalizione vincente sottolineava la necessità
di liberare il porto di Palermo dalla congestione commerciale(!), in
quelle più recenti soltanto il candidato vincente ha fatto qualche vago
riferimento, poi non sviluppato, alle attività portuali e
cantieristiche. Intanto il tempo passa, e tutti, ambientalisti e
rodomonti di vario genere, condividono l'idea che il Foro Italico sia
l'unico tratto di mare rimasto alla città, oscillando tra inerzia in
nome della salvaguardia e sensazionalismo privo di alcuna fattibilità.
Intanto la disoccupazione continua ad affliggere la nostra città, il
centro storico langue nel fallimento del Ppe, si approva un piano
regolatore che contenta tutti e non contenta nessuno, privo com'è di
soluzioni adeguate di sviluppo e di rilancio della città. Ma il mare,
che c'entra il mare? I proclami di europeismo e di mediterraneità
cozzano contro la realtà di una classe dirigente miope, che non sa e
non vuole guardarsi intorno.
La globalizzazione implica competizione, e la maggioranza delle grandi
città mediterranee questo messaggio lo ha recepito, dotandosi di centri
direzionali, parchi tecnologici, attrezzature turistiche e portuali e
tutte le altre strutture che attraggono gli investimenti delle compagnie
internazionali (altro che Cartier e Valentino!) situandole il più delle
volte proprio di fronte la costa. Napoli ha recuperato l'area dell'Italsider,
realizzandovi un museo di rilevanza europea. Palermo continua a restare
notevolmente indietro rispetto a queste esperienze, barcollando in cerca
di una nuova identità dopo la crisi di quella burocraticoamministrativa
(era ora!) e perdendo uno per uno gli autobus più importanti in
coincidenza con questa perpetuata rimozione della sua vocazione
marinara.
Ma come, si potrebbe obiettare? Vogliamo ancora cemento? Altre
speculazioni? No, quello che si chiede è una progettualità, una
scommessa sul futuro della città che coinvolga i principali attori
sociali ed economici e si basi finalmente su un censimento delle
potenzialità e delle risorse in relazione alle esperienze di altre
realtà vicine e simili alla nostra. Continuare sulla strada della
speculazione fondiaria non serve a niente, ma è ancora peggio
rimpiangere un passato che non esiste più in nome del quale bloccare
ogni idea nuova. Basterebbe cominciare da Izzo...
vincenzo scalia
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