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Avrei voluto cominciare questo libro in modo diverso. In luogo del mare di Mondello, teatro naturale del prologo che tra poco leggerete, avrei preferito ambientare la prima scena di questa incredibile storia davanti all’Oceano di Miami Beach. Avrei fermato la macchina da presa della memoria davanti ad una della magioni più belle di Ocean Drive, proprio davanti agli scalini della “Casa Casuarina”, il giorno 15 luglio 1997, alle ore 8:45 del mattino, per scrutare la crudele esecuzione dello stilista di moda più affermato al mondo. Gianni Versace ha appena risalito alcuni scalini che distanziano l’Avenue dall’ingresso della sua dimora quando un uomo giovane, dell’apparente età di trent’anni circa, lineamenti ispanici, si avvicina e gli esplode contro due colpi di arma da fuoco corta di grosso calibro. Il corpo si abbatte senza un grido. Il killer, dopo l’esecuzione, deposita vicino all’uomo agonizzante un piccione. Il colombo è morto, orrendamente mutilato degli occhi. Lo spillone che è servito a penetrare le piccole cavità oculari è visibile sulla testa del pennuto. La sequenza si chiude lì. Nessuna utilità potrebbe avere la ripresa della mano dell’ignoto poliziotto che rimosse quel macabro segnale e neppure descrivere il convincimento di un altro investigatore secondo cui la morte del volatile era da ascriversi alle schegge del cranio della vittima trasformatesi in proiettili.
La scena successiva è quella che riprende uno scrittore molto famoso: Mario Puzo. Egli conosce la mafia come pochi al mondo. È lui che ha scritto “Il Padrino” ma pochi sanno che ha anche scritto un altro libro interamente ambientato nella città di Las Vegas. Il libro si chiama “I folli muoiono” e descrive il mondo perduto dei giocatori d’azzardo. Mario Puzo apparteneva a quel mondo, avvinto dal piacere immenso di vincere e perdere. Davanti allo scrittore c’è una sua vecchia conoscenza, un intraprendente italiano di nome Enrico Forti. Puzo parla piano, sottovoce. Sembra quasi di ascoltare Marlon Brando alias Vito Corleone. Lo scrittore sonda lo sguardo del suo interlocutore che gli chiede l’impossibile. «Cerchi la verità sul caso Versace? Vuoi veramente metterti nei guai, mio giovane compagno di tavolo verde… Guarda che questo non è poker, né black jack. Forse è una roulette, ma di roulette russa si tratta. Ritieni veramente di volere giocare con la pistola puntata alla tempia? Mi chiedi di sapere… ma c’è gente che è stata sterminata per molto meno… E, poi, a cosa serve la verità? La verità che cerchi non esiste perché è negata dalle stesse persone che dovrebbero cercarla…». «Mi basterebbe sapere perché hanno accecato quel piccione. Mi sarebbe sufficiente conoscere perché lo hanno lasciato lì, al momento dell’esecuzione, accanto al corpo esanime di Versace». «Pensi che il resto della storia te lo racconterebbe il piccione morto?». «No. Ma ho già materiale per la ricostruzione. Ho i miei canali nella polizia di Miami. Molti particolari li ho già messi a fuoco. Sono a buon punto. Però la storia del piccione mi è veramente oscura. Sono convinto che se riesco a decriptare quella simbologia posso dare un volto a chi volle la morte di Versace». «Attento! Mio caro amico, attento! Io sono solo uno scrittore e non posso proteggerti». «Ho preso le mie precauzioni». «Se io fossi in te avrei minore presunzione. Non esistono precauzioni in quell’ambiente». «Fammi conoscere qualcuno che sappia spiegare il significato di quel piccione. Non ti chiedo null’altro. Solo il senso di quelle ali accecate e non ti chiederò più nulla». «Se questo è il tuo desiderio, ti aiuterò. Ma non potrai dire che non ti ho avvertito». «Grazie Mario. Ti sarò riconoscente». «Se te ne daranno il tempo. Sì… se non ti uccidono potrai un giorno rendermi il servigio». Mario Puzo ed Enrico Forti sorridono. Si stringono le mani mentre una roulette in dissolvenza dietro di loro viene mossa da un croupier che invita in francese a muovere ancora una volta il gioco. Stacco. L’esterno è a Roma, nelle vicinanze dell’impianto sportivo dell’Acquacetosa. È quasi sera. L’appuntamento è fissato all’interno di un parcheggio. È previsto che Enrico Forti posteggi vicino ad un pulmino i cui vetri sono oscurati. La direttiva è semplice: «Entrerai dentro quel pulmino, indosserai il cappuccio che troverai sul sedile, ti distenderai per terra a faccia in giù e attenderai in silenzio». Aveva eseguito l’indicazione dell’ignota voce in un messaggio registrato. Adesso attendeva chiedendosi quale follia, per quanto lucida, lo avesse guidato in quel luogo. Gli uomini entrarono nel pulmino e ruppero l’attesa paurosa in cui era piombato. Dovevano essere in tre. Uno di loro si era posto alla guida, gli altri due gli erano accanto. Parlavano in romanesco. Gli dicevano di stare calmo, di farsi legare le mani dietro alla schiena e di permettere che un laccio sigillasse il cappuccio sul collo. Non fecero alcuna domanda. Cominciarono a girare per la città. Almeno tre ore di percorsi dapprima in strade trafficate del centro, poi sempre più verso la periferia e, verosimilmente, oltre il grande raccordo anulare. Quindi il pulmino doveva essersi avvicinato alla campagna perché il rumore del traffico era diventato sempre più rarefatto. Poi era cessato del tutto. Il pulmino si era fermato e la porta posteriore scorrevole era stata aperta con fragore. Un silenzio irreale adesso circondava ogni cosa. Quel silenzio era come un vuoto assoluto. Umido e freddo avevano invaso l’interno dell’auto. Quei luoghi odoravano di muffa. Poteva trattarsi di caverne o forse anche di cantine. Lo fecero ritornare in posizione eretta e, quindi, lo condussero tenendolo rudemente per le braccia verso la destinazione. I passi adesso rimbombavano come se delle arcate sovrastassero il camminamento. Poteva forse sbagliare ma quel luogo, in cui cieca vagava la sua percezione, doveva essere un chiostro antico. Una campana batté i suoi rintocchi. Un chiostro ed una campana, ecco dove si trovava… era in un convento. Un altro rumore gli confermò l’idea che quello fosse un antico luogo di preghiera. Percepì distintamente l’apertura di un cancello metallico perché, prima di essere introdotte nella toppa, chiavi avevano tintinnato contro il ferro delle grate. Era un rumore che evocava l’apertura delle celle dentro un carcere. Chiostro, campana, cella… se i sensi non lo ingannavano stava entrando in una stanza di clausura, uno di quei luoghi in cui la spiritualità è fatta di preghiera e rinuncia quotidiana. Gli uomini che lo accompagnavano lo fecero sedere. Li udì, quindi, allontanarsi. Restò qualche tempo in attesa ma nessuna percezione alterò, nell’immediato, il suo spazio cieco. Dovette accentuare la sua attenzione per udire un assai flebile respiro. Era più di un respiro. Quello che udiva era il sommesso recitativo di un rosario, preghiera più lieve di un bisbiglio. Poi la voce risuonò roca e baritonale come nata da un anfratto pietroso. «È strano quante sensazioni incomunicabili nasconda il silenzio. Non è vero?». L’uomo incappucciato inchina la testa in segno di approvazione. «Spero non l’abbiano maltrattata. Odio la violenza. Purtroppo a volte è necessaria…». «Posso guardarla in viso?». «Temo non sia possibile. Il mio passato non ammette i testimoni anche se adesso quello stesso passato è più lontano e inafferrabile di un’ombra. D’altronde non le serve certo sapere che faccia io abbia o descrivere la mia età. Secondo quello che mi hanno riferito lei è qui per altro. Non è vero?». «Sì. Ho da chiederle perché si acceca un volatile e al contempo si spegne la vita di un uomo». «Vecchi metodi, vecchi rituali… posso solo pregare per loro. Vivono nel peccato e non sanno che molto presto riceveranno la punizione divina. Mi sembra un passato così lontano». «Il nostro comune amico ritiene che lei possa aiutarmi a comprendere. Sto preparando uno speciale televisivo sull’assassino di Versace. Andrà in onda in Francia ed in Italia ma non è escluso che potrà essere diffuso in tutta Europa». «Ha detto sull’assassino o sull’assassinio?». «Forse sono due facce della stessa medaglia…». «Cosa pensa possa conoscere di tutto ciò un uomo di preghiera come me? Glielo ripeto: ho rotto con il mio passato. Mi sono giudicato da solo e da solo mi sono condannato. Quello che i suoi occhi bendati possono appena farle immaginare… ebbene, quella è la mia pena». «Mi parli di quel simbolo. Lei sa perché fu lasciato accanto a quel corpo agonizzante». «Lei mi parla di un mondo di significati che, per fortuna, sono adesso lontani anni luce anche nella memoria: il sasso in bocca, la moneta piggiata dentro il foro del proiettile, il taglio dei genitali e delle falangi… Le racconterò una storia sperando che la mia narrazione potrà esserle utile a comprendere. Conoscevo un uomo di una ferocia e di una determinazione criminale straordinaria. Quell’uomo, al culmine della sua carriera costellata di orrori, organizzò uno degli atti più eclatanti che si ricordino. Il bersaglio fu mancato per soli pochi metri ma l’esplosione polverizzò un auto in cui viaggiavano una donna e due bambini in tenera età. Sarebbe stupido pensare che quell’errore modificò la sua risolutezza delittuosa perché ciò che, invece, gli aprì la strada della redenzione fu altro. Solo pochi giorni dopo quell’esplosione e quelle morti innocenti, l’auto nella quale viaggiavano sua moglie ed i suoi tre figli uscì di strada. Morirono tutti. Il luogo dell’incidente non fu lontano dal luogo in cui la prima strage si era consumata. Così quell’uomo malvagio comprese, d’un tratto, che non sono solo i criminali a cospargere il proprio cammino di segni di riconoscimento e simboli, ma c’è pure una entità – se più le aggrada la chiami Dio – che conosce l’uso dei simboli e delle metafore…». «Questa parabola è la sua stessa vita?». «La lascio libero di immaginare. Direi che questa parabola mi ha permesso di rinascere». «Cosa conosce del caso Versace?». «Nulla, non so nulla e se anche sapessi non le direi nulla perché non vorrei mai sentirmi responsabile della sua rovina». «È la stessa cosa che mi ha detto Mario Puzo». «È un uomo ragionevole oltre che un grande scrittore. L’unica cosa che posso dirle è che una volta entrati nella grande famiglia non se ne può più uscire; una volta aiutati dalla grande famiglia mai si dovrà dimenticare. Per chi dimentica l’aiuto che è stato dato, per chi ti volta le spalle e ti si nega dopo che proprio quell’aiuto ti ha permesso di costruire un impero, c’è soltanto un volo cieco e mortale. Una pace dissolta che non sarà mai più ritrovata. Adesso cerchi pure la sua verità». «Comprendo soltanto che nella mafia non è ammesso l’errore. Lo sgarro è mortale». «Le ripeto. Non so nulla del caso Versace. Lei mi ha chiesto del piccione accecato e io le ho esattamente detto cosa quel messaggio può significare. Adesso mi lasci continuare la mia preghiera. Il compito che l’attende è assai arduo e le auguro che non abbia a pagare il prezzo di questa ansia di verità che la possiede». «Ho un’ultima domanda da porle. Lei ha mai conosciuto Gianni Versace?». Tra i due scese il silenzio. Un silenzio profondo. «Mi dispiace, il suo tempo è scaduto. Abbracci caldamente Mario Puzo da parte mia». Stacco. Adesso l’esterno è a Parigi. È la notte del 31 agosto 1997. L’intraprendente italiano, con la passione per l’azzardo, ha appena finito di montare il filmato su Versace presso la sede televisiva francese TF1. Sta cercando con il suo cineoperatore un ristorante aperto dove poter cenare. Proprio in quel momento qualcosa di strano accade attorno a loro. Il luogo è il tunnel sotto il ponte de l’Alma dove si schianta una Mercedes blindata. Dentro sta agonizzando Lady Diana Spencer mentre il suo compagno è già morto. Lontano può udirsi l’urlo delle sirene e dei clacson della polizia in via di avvicinamento. I due uomini guardano stupefatti l’auto quasi interamente disintegrata. Uno di loro mette in spalla la cinepresa, l’altro tiene nervosamente tra le mani una macchina fotografica e preme a ripetizione il pulsante di scatto. Ogni pressione è un flash che illumina l’ammasso di lamiere. Le ultime parole di Lady Diana si perdono tra quei colpi di luce abbagliante. «Please… leave me alone… leave me alone…». Stacco e dissolvenza.
Avrei desiderato cominciare il libro sul caso Forti così. Ma la storia che vi
racconterò non è un film… |
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