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Oltre il ragionevole dubbio 
(Il caso Forti)
 
Le singolarità

 

Bisogna raccontare altri aspetti di questo caso per comprendere, pienamente, con quale atteggiamento psicologico le parti giocheranno i loro ruoli nel corso del processo.
Più che fatti o circostanze, sono vere e proprie particolarità del contesto. Le ho inserite sotto questo titolo perché in altro modo non saprei definirle. Si tratta di singolarità di natura strutturale e singolarità di gestione delle prove.
È molto singolare, per esempio, che il processo americano attribuisca l’ultima parola all’accusa e non alla difesa. Pertanto, la requisitoria del pubblico ministero Reid Rubin (che leggerete di qui a poco) è l’ultimo atto del processo prima che i giurati escano dall’aula e si riuniscano in camera di consiglio per deliberare.
Non è cosa da poco.
La suggestionabilità dei giurati (cittadini eletti a sorte) non necessita spiegazioni.
È, ancora, molto singolare che il processo non permetta ai giudici di indicare alle parti temi nuovi o integrazioni probatorie: la decisione va presa sulla base di quello che le parti hanno deciso di mostrare loro. Quindi, inspiegabilmente, non sono stati ascoltati, nel processo, l’imputato Forti, la moglie Heather, il condannato per reato collegato Thomas Knott e altri che pure avevano partecipato direttamente ai fatti.
L’estrema singolarità di questo modo di procedere appare evidente.

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Ho già accennato al ruolo del giudice Victoria Platzer.
Sicuramente, l’avere svolto funzioni inquirenti nel processo per l’omicidio Versace poteva in qualche modo generare una causa (anche solo virtuale) di incompatibilità.
Ragioni di opportunità avrebbero, quindi, suggerito la sua astensione.
In modo molto singolare, il giudice non ritenne di astenersi (fin qui fisiologia della libera scelta) ma, nello stesso tempo, decise di estromettere la possibile prova del “complotto” ai danni di Forti facendosi giudice di se stesso, ossia esaminatore di una circostanza che incideva sulla propria incompatibilità.
Un’altra ragione di opportunità avrebbe poi suggerito al giudice l’astensione: Victoria Platzer era stata giudice del processo contro Knott (caso n. 6051 del 1998) in cui ogni possibile accusa connessa all’omicidio era stata oggetto di patteggiamento.

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Un altro aspetto singolare riguarda la cauzione che fu imposta al momento in cui l’imputato, accusato di truffa e circonvenzione di incapace, fu rimesso in libertà condizionata.
La cauzione fissata per Forti fu pari a dieci milioni di dollari, una cifra record negli USA per un caso di truffa (poi commutata con il blocco di tutte le sue proprietà). Esisterebbe, in tal senso, una registrazione del Tribunale definita Arthur Hearing del 24 febbraio 1998 che ne comproverebbe l’effettività.
Tutto ciò farebbe pensare ad una sorta di prevenzione nei confronti dell’imputato.
Su questo aspetto del pregiudizio, Enrico Forti non lesina gravi sospetti di natura xenofoba.
La notte tra il 20 e il 21 febbraio 1998, in cui avvenne l’arresto, il detective Gonzales, nel togliere gli effetti personali all’imputato, avrebbe preso una fotografia dei suoi bambini e avrebbe detto: «Tu sei l’italiano che ha detto che la polizia di Miami è corrotta? Non vedrai più i tuoi bambini». Avrebbe preso la foto e l’avrebbe strappata sotto i suoi occhi gettandola in un cestino.
È inutile cercare questa circostanza tra gli atti del processo dibattimentale.
La sera dell’arresto, Forti sarebbe andato di sua iniziativa alla stazione di polizia senza un avvocato perché il suo amico detective Gary Schiaffo lo aveva rassicurato sul carattere del tutto informale dell’incontro.
Come abbiamo visto, Gary Schiaffo era lo stesso uomo che aveva collaborato con Forti nella realizzazione del filmato “Il sorriso della Medusa” sul caso Versace e sulla fine di Andrew Cunanan.

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Singolare è la contestazione su alcune circostanze storiche già delineate prima.
Secondo la ricostruzione evidenziata dalla difesa, il cadavere di Dale Pike era completamente nudo e avrebbe avuto accanto solo il cartellino d’ingresso negli Stati Uniti.
Da qui il dubbio che il cartellino fosse scivolato “per caso” vicino al corpo (era già sera e la visibilità limitata) o fosse stato lasciato lì di proposito per facilitare il riconoscimento della vittima e coinvolgere così, inevitabilmente, Enrico Forti nell’omicidio.

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La difesa, inoltre, sostiene che il motivo del viaggio di Dale sarebbe stato piuttosto quello di fare una vacanza proprio per conoscere Forti: Tony Pike avrebbe desiderato che il figlio potesse lavorare con qualche mansione all’Hotel Pikes.
A conferma di questo assunto esisterebbe una telefonata registrata tra Helen Desrossiers e Tony Pike che comproverebbe questa affermazione. Il colloquio non è stato mai accettato come prova perché registrato illegittimamente in Canada, cioè fuori dalla giurisdizione americana.

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Leòn Peña, notaio di Madrid, sarebbe stato ascoltato dal pubblico accusatore Reid Rubin nel corso di un suo viaggio in Spagna. In una lettera spedita agli avvocati di Enrico Forti, il notaio avrebbe dichiarato che il rappresentante dell’accusa sarebbe andato a Madrid non per verificare la regolarità del contratto di compravendita dell’albergo, ma per trovare prove contro l’imputato.
Avendo fornito una testimonianza favorevole a Forti (per quanto riguardava la regolarità del contratto), il notaio Peña sarebbe stato depennato dalla lista dei testimoni e diffidato dal recarsi a Miami per testimoniare al processo.

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La domanda che la difesa ritiene non abbia mai avuto una ragionevole risposta istruttoria riguarda le modalità dell’omicidio se poste in rapporto con le qualità intellettive dell’imputato. Un immaginario interlocutore potrebbe anche chiedersi come mai l’imputato, con uno score superiore alla media ottenuto nei test di intelligenza (rilevabile dalla sua scheda dell’esame psicologico sostenuto dopo l’arresto) e molto istruito (parla correntemente cinque lingue), avesse potuto pianificare un omicidio, andando a prelevare la vittima all’aeroporto in tempi e modi così ristretti e dimostrando a tutti di essere l’assassino.
In altre parole, questo insensato modo di procedere sarebbe stato come dichiarare: «Sono stato io… ma come fate a non capire?».

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Sul tema delle menzogne riferite alla moglie e al padre della vittima il racconto della difesa si inerpica come segue:
Tony Pike sarebbe arrivato a Miami soltanto alla fine di novembre 1997, ospite di Knott. Avrebbe conosciuto Heather Forti e i bambini per caso, mentre Enrico era assente per lavoro. Nei giorni seguenti, frequentando la piscina comune del condominio in cui abitavano, si sarebbe consolidata una specie di amicizia. In quella circostanza Tony avrebbe parlato con Heather anche del figlio Dale, indicandolo come una persona inaffidabile e dedita ai vizi più sfrenati e con la quale non aveva più rapporti da almeno nove anni.
Tre mesi più tardi, quando si prospettò la possibilità di ospitare Dale a casa loro, Heather si oppose drasticamente e avrebbe chiesto al marito di non avere alcun tipo di contatto con lui. Da questo invito sarebbero nate le menzogne estese a Tony Pike perché durante le telefonate fatte dall’albergatore per avere notizie del figlio, la moglie sarebbe stata sempre presente.
Heather avrebbe confermato questa ricostruzione ma – come abbiamo evidenziato – non è mai stata chiamata a deporre al processo, né dall’accusa né dalla difesa.

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L’alibi di Knott (la cena alle 19:00 del 15 febbraio 1998) sarebbe un’evidente falsificazione.
Knott viveva in un angusto miniappartamento ospite di un italo-tedesco, Mauro Lazzini. L’appartamento era composto da una camera, una cucina, un soggiorno e un bagno.
Non sarebbe stato un ambiente adatto per ospitare una cena né mai, prima di quella data, l’appartamento (proprio per questi limiti di spazio) era stato sede di cene estese a invitati.

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La testimonianza di Mauro Lazzini confermerà alcune dichiarazioni rese da Knott.
Secondo Lazzini accadde che la sera di giovedì 19 febbraio, dopo essere stato ascoltato dalla polizia di Miami, Enrico Forti raggiunse Knott nel suo appartamento.
Il motivo della visita era quello di esortare lo stesso Knott alla fuga dagli Stati Uniti.
Forti avrebbe avvisato Knott che la polizia stava procedendo anche nei suoi confronti per espatrio illegale e altro. All’obiezione di Knott, che diceva di non volersi allontanare e di non avere neppure i soldi per farlo, Forti avrebbe insistito sostenendo di essere pronto a pagare il costo di quell’allontanamento.
Forti sarebbe tornato l’indomani mattina e avrebbe consegnato mille dollari a Knott.
Alcuni accertamenti svolti dalla polizia sui prelievi del bancomat permisero di accertare che Forti, in effetti, aveva prelevato mille dollari la mattina del 20 febbraio 1998.
La difesa ha ritenuto questa testimonianza fondata solamente su delle congetture. Lazzini non avrebbe visto quella sera di persona il Forti, ma avrebbe riferito soltanto quanto dettogli dal Knott.


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La difesa ha affermato che Enrico Forti, uscito dall’aeroporto con Dale, accettò di fermarsi a un distributore dove l’ospite comprò delle sigarette e fece una telefonata.
Tornato in auto, sarebbe stato lo stesso Dale a comunicare a Forti il cambiamento di programma, pregandolo di accompagnarlo al Rusty Pelican, dove lo avrebbero atteso alcuni amici di Knott.
Dale avrebbe detto: «Me la spasserò per qualche giorno con loro. Non dire a nessuno che mi hai visto e dove sono andato. Ci sentiamo quando arriva mio padre».
Sarebbero state queste le ultime parole pronunciate da Dale davanti a Forti.

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Durante il processo Tony Pike si presentò per testimoniare sostenuto da due infermiere, pallido e traballante. Era il 10 giugno 2000. Qualche tempo dopo, due turiste trentine testimoniarono di essere state ospiti dell’Hotel Pike a Ibiza, di essersi intrattenute con un abbronzantissimo Anthony Pike, brillante ospite sia alla sera presso il piano-bar che di giorno in piscina, dove «si tuffava e nuotava come un giovanotto»…
La messinscena delle infermiere presso la Dade Court di Miami sarebbe stata studiata ad arte per influenzare la giuria.

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Durante la deposizione di Tony Pike al processo, di fronte alla precisa domanda della difesa:
«Forti le ha mai rubato denaro?»
Pike rispondeva deciso:
«No, Forti non mi ha mai rubato nulla».
Il pubblico ministero, riprendeva veemente il suo stesso testimone:
«Come non ha rubato nulla? Ha rubato la vita di tuo figlio!».
Davanti all’inevitabile obiezione della difesa, il giudice richiamava l’accusatore e invitava la giuria di non tenere conto di questo “scatto d’ira” condizionante il processo.
Si può essere certi che la giuria non sia stata influenzata da questa circostanza nel prendere in seguito le sue decisioni?

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La settimana antecedente le requisitorie finali del processo, la difesa ebbe l’idea (non nuova negli studi legali americani che assistono clienti considerati facoltosi) di allestire una simulazione del processo: un giudice, un pubblico ministero ed una giuria, come sul set di un film.
Gli avvocati procedevano con il dibattimento, le arringhe della difesa e le requisitorie dell’accusa. Dopo questo processo fittizio vi fu la decisione della giuria: non colpevole!
Avvalorando questa incredibile messinscena, la difesa informava la famiglia del Forti di essere assolutamente certa dell’assoluzione, invitandola a «mettere dello champagne in frigo per festeggiare a casa con lui la settimana seguente»…