21 Giugno 2003


 

 

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STORIE DI MARE

ISOLA DELLE FEMMINE TRA STORIA E LEGGENDA
Sulla costa nord-occidentale della Sicilia a circa sei miglia da Mondello, al di là del monte Gallo, oltrepassate la punta di Barcarello e la conca di Sferracavallo, c’è  Isola delle Femmine. Un’isola che non è un’isola e che con le donne non c’entra affatto

Sulla costa nord-occidentale della Sicilia a circa sei miglia da Mondello, al di là del monte Gallo, oltrepassate la punta di Barcarello e la conca di Sferracavallo, c’è  Isola delle Femmine. Un’isola che non è un’isola e che con le donne non c’entra affatto: anticamente era un piccolo villaggio di pescatori sulla terraferma intorno ad una grande costruzione feudale, poi una vasta borgata marinara, emblematico esempio di espansione peschereccia e oggi un importante centro turistico e di villeggiatura nonché una delle mete preferite dei surfisti locali, con una singolare riserva naturale marina e terrestre.

Una tesi aulica individua l’origine del nome della borgata in Insula Fimi (Isola di Eufemio) dal nome del governatore bizantino della Sicilia, ma la sua denominazione molto più probabilmente è legata a quella che gli abitanti del luogo chiamavano “Isula di fuora”: un’isoletta vicinissima alla costa e dalla forma triangolare (poco più di 14 ettari) “detta le Pulzelle, oggi delle Femine, lontana dal lido circa duecento canne[1], la quale avrà di circuito circa un miglio” secondo il celebre architetto Camillo Camiliani o “Isola del Donne” nelle memorie del musicista fiorentino Aurelio Scetti, condannato al remo sulle galere per aver ucciso la propria donna, o “Isola delle Donzelle” in un portolano siciliano del XVII secolo o ancora “Isola e tonnara di Feme detta delle Femmine” in una carta borbonica del 1851.

Nel XVI secolo, a difesa di Isola dalle incursioni barbaresche, furono edificate due torri di vedetta: una rossastra, cilindrica, a due piani sulla terraferma, su un’enorme pietra di basalto. È la cosiddetta “Torre in terra” che, facendo parte del sistema difensivo siciliano, macchinoso quanto poco efficace, era armata con una colubrina e in comunicazione con le torri di Carini, della punta dell’Orsa, di Molinazzo, del Guastato, di Capo Rama, della Balata… e dopo il 1584 l’altra, detta la “Torre in mare”, oggi quasi del tutto diroccata,  a base quadrata, con mura spesse più di due metri e coronata di merli, in cima all’Isola di Fuori, perchè a nord la scogliera a strapiombo sul mare presentava due ampie insenature, ottimo nascondiglio per le navi pirata.

Secondo Plinio il Giovane bellissime fanciulle abitavano la piccola isola ed erano offerte in premio ai guerrieri più arditi. Si racconta anche di tredici donne turche esiliate e vissute da sole per sette anni nella torre, costruita da loro stesse,  e che, liberate, fondarono Isola unendosi agli uomini del vicino borgo di Capaci. Da sempre poi si vocifera che sull’isolotto non si sa bene quali “femmine di mal affare” furono rinchiuse all’interno della torre a morire di stenti: nient’altro che una diceria messa in giro prendendo spunto proprio dal nome dell’isola. Una innocua storiella che però, nelle menti di alcuni se non di tanti, è divenuta al contrario la “base etimologica” per spiegare il  topònimo dell’isola stessa. Mentre la storia del nome, quella vera, è da ricercarsi nel termine fim (bocca o imboccatura in arabo), che venne trascritto letteralmente nel latino Fimis, così come risulta indicata l’isoletta in un privilegio di Guglielmo II del 1176. Fimis in dialetto siciliano fu poi alterato in fimmini ed infine italianizzato in femmine. E le uniche femmine semmai delle quali è doveroso parlare sono di certo quelle donne, mogli, madri,  figlie, sorelle, che nel corso dei secoli pazientemente aspettarono trepidanti il ritorno dei loro uomini. Lupi di mare che uscivano con qualsiasi tempo, intrepidi pescatori che partiti con il grecale, vento in poppa, costeggiando fino a raggiungere Trapani, nei pressi della tonnara di Bonagia  si facevano il segno della croce e recitavano una preghiera, appena avvistavano il santuario della Madonna, uomini che si mettevano alla vela nel giorno di  San Giuseppe (19 marzo) e stavano lontani da casa per mesi interi, mentre le donne restavano “sole a filare, fra semplici, lente e monotone melodie, il lino” per le menaidi[2], le lunghe reti stese poi ad asciugare sui piani stenditori di Isola. Ritornavano per il giorno di San Pietro (29 giugno) ignari di aver lasciato un segno nelle acque trapanesi, così come risulta nella Capitaneria di Trapani da una carta nautica inglese del 1864, in cui è riportata come Isola di Femine una piccola secca a qualche miglio ad ovest dal porto. È probabile che all’epoca, delle barche di Isola, che pescavano in quei mari, abbiano comunicato per errore il proprio luogo di origine, al posto del nome della secca, al comando del Firefly, il naviglio inglese che rilevò la carta.

E quante tracce deve aver lasciato questa rude e coraggiosa razza di pescatori, che rappresenta uno dei più chiari esempi di tradizione e di espansione peschereccia.

Ma le tradizioni marinare degli isolani  gradualmente spiegarono le vele su altre rotte, sempre più lontane. I pescatori di Isola cominciarono dapprima a spingersi verso Trapani, San Vito Lo Capo, le Baracche di Trapani,  Mazzara e verso le isole di Favignana e Marittimo, non andando oltre Sciacca e Girgenti (Porto Empedocle). Anche se nel 1830 la presa di Algeri aveva definitivamente posto fine alle scorribande dei pirati Turchi, il dolore e la paura continuarono a dominare sulla gente di Isola delle Femmine per molti anni. Non era facile cancellare le violenze subite, né dimenticare che alla fine del XVIII secolo, annientata “la marina sicula, la stessa Palermo rimaneva così indifesa che un ladrone inglese, addì 13 luglio 1797, poteva entrare nel porto e rimanervi, indisturbato, a predare quanti più legni potesse!”.

Nel 1856 la svolta, quando un certo Brignone di Pantelleria si reca a Isola per reclutare equipaggi per la pesca nelle acque di Lampedusa e trova diversi uomini pronti a seguirlo a bordo delle loro “capaciote”, barche ampie e leggere, solide ed eleganti, adatte alle migrazioni lontane. I pescatori stessi intuirono le potenzialità di questa barca davvero unica e presero a perfezionarla, rinforzandone le strutture e dotandola anche di una vela latina con o senza fiocco. E così quando nel 1870 Antonio detto u friddu e due dalmati un certo Novak e un tale Molino vengono in cerca di braccia robuste per andare in Tunisia a pesca dell’alaccia o sardinella aurita e a pesca di clupeidi[3] da salare in Algeria, che ne è ricchissima, le barche di Isola sono pronte a partire: le capaciote cominciano a battere in lungo e in largo le coste settentrionali dell’Africa: Mehdia, l’isoletta di Zembra fino a La Calle e piccole colonie di Isolani si creeranno a Tabarka, a Susa, a Tunisi, ad Algeri.

Negli anni Venti e Trenta Isola delle Femmine cominciò a spopolarsi: i fondali della costa nord-occidentale della Sicilia impoveriti dall’uso indiscriminato della pesca con la dinamite e i discendenti di quegli uomini, che pescavano nel caldo sole dell’Africa settentrionale, emigrarono in California. Sul fiume Sacramento vicino San Francisco diedero vita al nuovo borgo di Black Diamond, oggi Pittsburg, e in Alaska presero a pescare il salmone accanto a cinesi e gente di tutte le razze.

 Alessandro Costanzo Matta


 

[1] circa 400 metri; canna: unità di misura di lunghezza (da due a tre metri)
[2] Lunghe reti per la pesca da posta formate da un solo telo a maglie tutte uguali
[3] Famiglia di Pesci Clupeiformi i cui generi principali sono Alosa, Clupea, Sardina e Alaccia o Sardinella