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- In questi ultimi anni la tua attività si è espressa in numerosi e differenti contesti: come leader hai dato vita a varie formazioni, come solista guest artist sei stato richiestissimo in gruppi italiani ed internazionali, come musicista hai affrontato il repertorio dei più celebri compositori della storia del jazz e spesso ne hai proposto nuovi arrangiamenti. Qual è il tuo attuale momento espressivo? E.R. - Vivo di tentazioni, oggi come ieri e, spero, come domani. Forse, come spesso mi suggeriscono amici ed estimatori, dovrei incamminarmi in una dimensione più rilassata e pensare soltanto a capitalizzare al meglio la mia carriera. Ma sono un artista che vive di passioni e di emozioni e fatico a tenerle a bada. Comunque, in questo periodo la mia attività privilegia due filoni principali: come pianista, arrangiatore e band leader mi dedico soprattutto allo sviluppo dei Duke Ellington Singers, gruppo che ho costituito all’inizio degli anni Novanta; come strumentista mi dedico sempre con passione al vibrafono, strumento assai difficile che richiede costanza di applicazione, e non cesso mai di affinare tecnica ed espressione. - Eppure sei concordemente considerato ai massimi livelli: Arrigo Polillo, indimenticato decano della critica jazz europea, a proposito di un tuo disco scrisse di non conoscere alcun vibrafonista italiano che ti fosse minimamente paragonabile, la stampa iberica, in occasione di una tua lunga tournée in Spagna (nel 1980) come starring del Traditional Jazz Studio di Praga, ti definì “il Lionel Hampton europeo” e, più di recente, Adriano Mazzoletti ha affermato che sei “uno dei più importanti vibrafonisti del mondo”. E.R. - Non vorrei che le mie sembrassero solo frasi di circostanza ma la verità è che non si finisce mai d’imparare e che, almeno ogni tanto, è bene fare professione di umiltà, una professione che oggi, soprattutto tra i giovani, è sempre meno praticata. C’è però un’altra ragione in questa mia rinnovata dedizione allo strumento, un’esigenza artistica che da un po’ di tempo avverto abbastanza pressante: la ricerca di un differente approccio allo strumento, di una espressione sonora più piena, profonda, dilatata. Soprattutto da quando ho ricevuto in dono le mazze di Milt Jackson, è come se avessi davvero ereditato anche un pezzo della sua anima. E’ difficile da spiegare, ma è così. Lo scorso marzo mi sono esibito a Genova: quando ho attaccato “Alone Together” ho visto trasalire tutti, pubblico e musicisti. Alla fine Rossano Sportiello, un giovane ma grande pianista di cui presto sentiremo parlare, mi ha detto che nel suono e nel fraseggio del mio vibrafono aveva avvertito netta l’espressione del grande Milt. - Questo spiega anche il tuo progressivo allontanamento da Lionel Hampton, uno dei tuoi grandi riferimenti stilistici? E.R. - Ho tantissima stima e rispetto per Hampton ma, se devo essere sincero, è da un pezzo che voglio abbandonare il suo repertorio: esigenze, come dire, di spettacolo finora non me lo hanno consentito compiutamente. Il fascino che attualmente avverto fortissimo per l’universo espressivo di Jackson non è solo un fatto di suggestione spirituale o di gratitudine per la considerazione che il Modern Jazz Quartet aveva per me: c’è anche e soprattuto una motivazione tecnica. Quelle mazze così esageratamente corte, così esageratamente grosse, così esageratamente pesanti riducono di molto la distanza tra te e lo strumento, diventano naturali estensioni delle tue mani; anche in velocità e potenza, ne puoi trarre un suono pieno, profondo. E’ anche per questo che ho quasi abbandonato l’uso dei quattro malletts, tecnica assai spettacolare ma nella quale non ritrovo quella profondità di suono e di espressione che adesso voglio perseguire. - Eppure il vibrafono è considerato uno strumento molto condizionante. E.R. - Vero, ma è sempre questione di sensibilità individuale e di creatività, come nel caso di quei pochi specialisti capaci di distaccarsi dai soliti modelli costituiti da Hampton e Jackson o, per parlare al presente, da Gary Burton e da Bobby Hutcherson: mi vengono in mente i nomi di Dave Samuels, di Joe Locke e, soprattutto, di Mike Manieri, forse il vibrafonista più innovativo del panorama contemporaneo. Manieri, ad esempio, ha applicato allo strumento la tecnologia Midi per ampliarne le possibilità espressive. - Ti affascina l’uso delle moderne tecnologie elettroniche? E.R. - Sicuro ma, almeno per il momento, non rientrano affatto nei miei programmi. E poi ho troppo rispetto per i miei strumenti per pensare di alterarne la voce; in questo sono molto tradizionalista. - Hai parlato al plurale: quanti vibrafoni possiedi? E.R. - Due: il mio preferito è un vecchio, meraviglioso Deagan dei primissimi anni Cinquanta; poi ho un più recente ed ottimo Musser. Con loro ho un rapporto di amore e odio, per via del peso, dell’ingombro e, quindi, delle difficoltà di trasporto e dei relativi costi. A volte buona parte del chachet viene assorbita dalle spese di trasporto ma, quando possibile, qualunque musicista preferisce sempre suonare sul proprio strumento. Quattro anni fa Milt Jackson suonò in Sicilia, a Nicolosi: nella scheda tecnica aveva chiesto espressamente un Musser ma quando, vincendo lo scetticismo del manager, gli feci sapere che c’era anche disponibile un Deagan (non più in produzione e ormai rarissimo da trovare) Milt disse categorico che avrebbe suonato solo sul Deagan, lo stesso che egli possedeva. Fu in quella occasione che mi regalò le sue mazze. - Come mai la tua produzione discografica è così insolitamente rarefatta? E.R. - Innanzitutto prediligo sempre la dimensione live e poi per incidere dischi bisogna essere dei volponi o disponibili a seguire mode e tendenze. In realtà in questi ultimi anni ho inciso anche parecchio materiale ma non ho finora trovato il suono giusto, l’atmosfera giusta; così, preferisco non pubblicare. - Che dischi ascolti in questo periodo? E.R. - La musica preferisco farla; confesso di ascoltarne pochissima non fosse altro che per evitare dispiaceri: quelli meno bravi di me mi fanno solo arrabbiare, quelli più bravi mi fanno deprimere ed avvilire. - I tuoi progetti futuri? E.R. - Ho un sogno nel cassetto: si chiama “La bottega del jazzista”. Oggi apparentemente siamo pieni di scuole di musica che, in realtà, non insegnano proprio nulla. La stragrande maggioranza di queste scuole sono la via più breve per disimparare presto quel poco che si sa o per allontanarsi dal jazz in tutta fretta. Le migliori, e sono davvero poche, hanno una impostazione troppo rigida, teorica, accademica, ingessata. Al più servono a sfornare musicisti magari tecnicamente bravi, quasi sempre troppo pieni di sè, ma fatti in serie, come fossero scatolette: alla fine suonano tutti allo stesso modo e così lo spirito del jazz va a farsi benedire. Quando penso alla “La bottega del jazzista” penso invece ad una vera e propria di scuola di apprendistato, come usava una volta nelle scuole di pittura del passato: il recupero dell’apprendimento artigianale, l’abolizione di banchi e cattedre, lo stare realmente e concretamente in mezzo ai giovani, percepirne l’energia e la creatività, intuirne l’ingegno ed il talento; insomma, fare veramente jazz. Ma questo è solo un sogno nel cassetto. Gigi Razete
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